Entrare nel “Castello” di Morra significa fare un passo indietro di quasi 3 millenni. Il perché? Scopriamolo insieme.
Primo giorno – prima dell’ora sesta: dove si entra nel museo e si scopre che Morra fu territorio di mille popoli e di cento culture
Ci sono due stanza particolari nel Palazzo dei Biondi-Morra, due ambienti diversi tra loro ma che raccontano una storia incredibile e per certi versi anche complessa. La particolarità del luogo, dovuta alla stratigrafia culturale, richiede approfondimenti specifici, quindi quello di oggi sarà un “sommario” descrittivo.
Entriamo ora nella prima stanza del museo.
Il luogo dove si entra, partendo dalle stanza basse del Palazzo Biondi-Morra, è l’Antiquarium, un piccolo gioiello incastonato nella pietra secolare di questo posto. Anche qui, come detto nel precedente articolo, ci può essere chi “vede” e chi “osserva”.
Vedere qui vuol dire poter capire come siano ricche le campagne del territorio di reperti archeologici e come questi, nel primo ambiente visitato, siano riconducibili alla cultura della popolazione degli “Irpini”.
Osservare vuol dire, invece, per prima cosa capire dove siamo e perché quei reperti sono lì. Come prima cosa bisogna capire che non siamo più a “Morra”, ma in un territorio prevalentemente boschivo, con pascoli per il bestiame e vari villaggi sparsi, segnati da legami familiari nei quali il ruolo culturale predominante non è necessariamente maschile, ma sicuramente la figura del “guerriero” è molto presente.
Non bisogna confondere, però, la “cultura del guerriero” con la “cultura della violenza”.
Entrando in questa stanza e percorrendone la storia si capisce come quella degli Irpini non fosse una società fondata sulla violenza, anzi: scambi commerciali, luoghi di incontri e miscugli culturali sono sotto gli occhi di tutti gli osservatori. Quella del guerriero descritta in questa stanza è la storia di una popolazione che aveva dei canoni precisi costruiti culturalmente sul maschio: forte, in grado di difendere il clan in caso di bisogno, coraggioso ma non solo. Osservando bene, infatti, si può notare come al fianco di spade e lance ci siano attrezzi da lavoro. Il “guerriero”, il capo, infatti, è anche colui che garantisce il cibo alla propria famiglia. Quindi tutto tranne che violenza si respira nella prima stanza del museo archeologico. Anche la donna aveva la sua costruzione culturale, evidenziata dai ritrovamenti sotto l’aspetto della cura della bellezza esteriore, dell’abbigliamento e della particolarità di fibule e gioielli.
Tra gli altri “racconti” che potrete osservare, ce ne sono due particolari che il visitatore più attento non potrà non notare. C’è una piccola collana in ambra, un reperto che, all’apparenza, può sembrare non ricco di significato, ma analizzandolo si scopre come questo gioiello fatto di una resina fossile molto pregiata, provenga dal Baltico. In poche parole, questo reperto ci dice che, nel VII secolo avanti Cristo, i commerci fossero così sviluppati che oggetti potessero arrivare dal Nord Europa fino al Sud dell’Italia.
Altro “pezzo” di fondamentale importanza è la famosa “coppa dei lupi”. Questo manufatto è un piatto rituale, realizzato in argilla e che sulla sommità ci sono delle figure di animali, chiaramente rimandabili al lupo. Questo, infatti, è un reperto più unico che raro: è una delle pochissime attestazioni dell’animale totemico degli irpini, il lupo per l’appunto.
Ma da dove provengono questi reperti? Come sono stati costruiti e dove sono stati collocati e, soprattutto, cosa succede quando gli Irpini incontrarono un’altra popolazione venuta dal mare? Ve lo dirò nel prossimo articolo.
A presto…
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