ariano arcobaleno

Un anno dopo: l’appello inascoltato di Ariano

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ariano arcobaleno
Foto di Giuseppe Perrina

5 Marzo 2020. L’inizio. Caos, preoccupazione, timore. I giornali locali cominciano a scrivere di due casi sospetti di coronavirus a seguito del recarsi presso il pronto soccorso dell’ospedale Sant’Ottone Frangipane di Ariano Irpino di una donna arianese di 59 anni con febbre e sintomi respiratori.

6 Marzo 2020. Una nota dell’Asl di Avellino recita: «È risultato positivo al Covid-19 il primo tampone effettuato sulla donna trasferita questa notte dal P.O. “Frangipane” di Ariano Irpino all’AORN “Moscati”». Ciò che tutti temevamo: il primo caso di positività al Covid-19 in Irpinia.

Quando il nemico invisibile mise piede in Irpinia

Giorni – quelli citati – che fanno da spartiacque in un’epoca così indefinibile, complessa, inattesa. I giorni dell’attacco al cuore d’Irpinia: Ariano Irpino. È difficile descrivere che aria si respirasse in quei giorni, ma ricordo esattamente il passaggio immediato, quasi impercettibile, da un clima di apparente normalità in cui si era “a conoscenza” del coronavirus – anche se lo si pensava tanto lontano da qui – ad un sentirsi totalmente spaesati e preoccupati. Quello, però, fu soltanto il campanello d’allarme di ciò che di lì a poco sarebbe accaduto.

Le idi di marzo: Ariano da libera a blindata

La tragicità della situazione in cui versava il Tricolle si manifestò in modo decisivo in quell’indimenticabile domenica del 15 Marzo 2020 quando il Presidente della Regione Campania De Luca affermò: «Dobbiamo isolare il focolaio, dobbiamo chiudere Ariano Irpino».

esercito ariano irpino
Fonte: Corriere del Mezzogiorno

Fermi. Sospesi. Increduli. Ognuno di noi arianesi, al pervenire di quella notizia, smise di fare qualsiasi cosa stesse facendo. Era come se il tempo si stesse fermando o forse stesse chiedendo a noi di fermarci. Pochi attimi dopo, la comunità arianese era già antinomicamente segnata da tragicità e solidarietà. Nel momento in cui Ariano cominciava a contare le sue prime 22 vittime di Covid-19 arrivavano dai paesi limitrofi messaggi di sostegno come: “Ariano non sei sola’’, “Siamo tutti arianesi’’, “L’Irpinia con il Tricolle’’. Addio ai campanilismi, agli egoismi, agli individualismi. Ma così com’è giusto ricordare queste dichiarazioni di solidarietà che hanno fatto da abbraccio ad una comunità ferita e sofferente come la nostra è giusto anche non dimenticare comportamenti di accusa, di offesa o addirittura di discriminazione di cui gli arianesi sono stati più volte vittime. E non soltanto dall’esterno. Ciò si è purtroppo verificato, almeno in principio, anche stesso nella nostra città. Scriveva Alessandro Manzoni nel noto romanzo storico I promessi sposi: «Il giorno successivo alla processione si moltiplicano i casi di peste, ma invece di cercare la causa nel contatto tra tanta gente, si dà la colpa agli untori». A distanza di secoli e in un contesto non del tutto diverso da quello della Milano del 1630 si verifica esattamente lo stesso. “I sentimenti di amicizia e comunanza – scrive Francesco Foti in La quarantena e da cosa dobbiamo proteggerci – spesso hanno lasciato il posto alle delazioni e agli strali contro untori di ogni tipo e di ogni provenienza”. All’inizio la comunità arianese ha reagito con irrazionalità, istinto, timore rispetto all’accadere degli eventi, ma poi ha immediatamente compreso quale fosse la priorità in un momento così delicato quanto quello: fare rete e non solo definirsi come una comunità, ma esserlo. Comprendere che il male suo è il male mio, la sofferenza sua la sofferenza mia.

Una città che soffre, una città che muore

I giorni e le settimane passavano. Si sperava ci fosse una luce in fondo al tunnel che prima o poi potesse dare avvisaglie di intravedimento e invece, era come trovarsi in un tunnel talmente tanto luminoso da essere impossibilitati nell’atto del guardare; a volte veniva da pensare che alla fine ci fosse solo buio. A sottolineare tale preoccupazione c’era ciò che attendevamo per un’intera giornata, ciò che non si voleva arrivasse, ma che necessariamente e inevitabilmente doveva arrivare: il bollettino serale. Ogni sera lo si aspettava con trepidazione perché quanto dichiarava non faceva altro che diminuire di giorno in giorno le speranze. Ci volle molto tempo per far sì che esso arrivasse a riportare: “0 casi ad Ariano”. Ma quello fu un unico sospiro dinanzi a tante sospensioni.

In quegli stessi attimi c’era una città che piangeva, una città che gemeva, una città che come quarant’anni prima gridava: “Fate presto!”. Una città fatta non soltanto di numeri, di vittime, di casi, ma di persone. Di persone che hanno sofferto da sole, che spesso si sono sentite abbandonate da un sistema che alle tante domande non dava neanche una risposta. Di persone che hanno esalato gli ultimi sospiri di vita senza che ci fosse un qualsiasi familiare o amico a tenere loro la mano.

Ariano è una città che da tempo conta appelli inascoltati. Qui “andrà tutto bene” lo si diceva già prima che arrivasse l’emergenza. Qui si parlava di “rinascita”, di “riscoperta” già prima che divenissero termini di uso convenzionale e che arrivassero a perdere il loro primigenio e profondo significato. È sicuramente più semplice e rassicurante pensare che l’essere travolti da una pandemia ed essere stati il focolaio d’Irpinia possa essere il motivo principale delle problematicità in cui oggi riversiamo piuttosto che pensare che l’emergenza non abbia fatto nient’altro che evidenziare e amplificare difficoltà e ostacoli già presenti, ma a cui era preferibile non pensare, o magari pensarci solo ogni tanto.

Ariano, ancora oggi, è una città ferita che chiede di pensare, di ascoltare, di non dimenticare.

Da luogo di fuga a luogo di rifugio

«Metti nella valigia la collera e scappa da Malincònia» – recita il testo del brano Goodbye Malincònia del cantautore Caparezza. E d’altronde è proprio ciò che è più semplice fare quando ci si trova in una terra bella e maledetta, ricca di potenzialità e lasciata a sé come la nostra, quando si è avvolti nelle braccia di una madre tanto gravida quanto avida d’amore. A volte, si arriva addirittura ad odiare la propria terra perché ci si sente limitati non solo nella situazione di partenza, ma anche nelle possibilità di riscatto, di rivincita rispetto ad una condizione natale alla quale si riesce a guardare solo come limite e non come confine.

Ariano Irpino
Foto di Iole Ionno

Si pensa scorrettamente che siano gli individui, da soli, a dover trovare riscatto e non gli individui insieme alle loro stesse radici. È questo che ha fatto la pandemia: ha riportato gli irpini a rimettere in discussione il rapporto con la proprio terra. L’Irpinia è passata da essere una terra da cui fuggire ad una terra in cui rifugiarsi. L’Irpinia è ritornata ad essere nido. Chi è rimasto bloccato altrove, nonostante la drammaticità della situazione in cui si versava il nostro territorio, avrebbe preferito essere qui e viverla quella drammaticità. Voleva ritornare in una terra in cui tutto sarà sempre diverso rispetto a qualsiasi altro posto nel mondo. Non è vero che siamo sotto lo stesso cielo. Non è vero che siamo illuminati dallo stesso sole. È vero, invece, che l’Irpinia è diversa nell’essere, nel mostrarsi. E questo lo si può sapere soltanto se la si vive.

L’Irpinia è una terra che cerca riscatto, oggi più che mai, e per farlo ha bisogno dei suoi figli. A volte, si sa, toccare il fondo è necessario per risollevarsi. Dunque, questa è per l’Irpinia non una condanna, ma un’occasione per ricostituirsi, ricomporsi, ripartire.

Oggi, ad un anno di distanza dall’inizio di tutto ciò, è importante commemorare il ricordo di tutte le vittime della pandemia e far sì che esse non restino numeri, ma che vengano ricordate come persone, citandone i nomi, rammentandone le peculiarità. Inoltre, un messaggio di profonda vicinanza e di cordoglio va a chi c’è ancora, a chi ancora combatte e vive le conseguenze, fisiche e psicologiche causate da questa drammatica pandemia. Stringiamoci forte, che abbiamo ancora un nemico comune da combattere.

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