Quarant’anni dal sisma del 1980:la nostra giornata della memoria, del ricordo. Perché da quel momento, nulla fu la stessa cosa…
90 secondi
Nel mondo il tempo si misura in avanti Cristo, e dopo Cristo. Qui siamo abituati a misurarlo in “prima dell’80 e dopo l’80”. Chiunque chi cresce con la paura di un qualcosa di innominabile, che torna nella memoria collettiva ogni 23 novembre, e deve essere esorcizzato, in qualsiasi modo.
Quarant’anni fa cambiò per sempre il viso di una terra dimenticata, ora ricordata solo per quel minuto e mezzo. 90 secondi, novanta secondi. Fu questo il lasso di tempo che bastò alla natura per ristabilire i ruoli, la gerarchia, per far diventare l’Uomo un qualcosa di piccolo, minuscolo. Le case in pietra e cemento, cumuli di polvere. Interi paesi un ammasso informe di macerie.
Bastarono solo 90 secondi. Ce ne sono 1.261.440.000 (un miliardo-duecentosessantunomilioni-quattrocentoquarantamila) di secondi in 40 anni, e non sono bastati a ricostruire un tessuto sociale aperto come fece la terra, dal cuore dell’appennino, fino alla costa.
Quella sera non eravamo lì a vedere la partita, non stavamo in chiesa a pregare, non eravamo nel circolo a giocare a carte, non eravamo per strada, al ristorante, a trovare i nonni o in viaggio in macchina.
Eppure, ogni anno, osservando lo sguardo di chi era lì, ci si ritrova spiazzati, sgomenti, vuoti, con uno strano senso di ansia che ti prende e ti stringe il cuore. Tutti troviamo un dovere coltivare il ricordo nell’ascoltare racconti, e più si avvicina il 23, più si fanno cupi, detti a stento, con sforzo. Perché più ci si avvicina al momento del boato, più il cervello fatica a rimanere lucido, preso da uno spavento atavico, antico quanto l’uomo stesso. E il dolore si legge nelle rughe di chi quel giorno perse tutto, persino la speranza.
Noi non eravamo lì, non abbiamo aspettato sotto le macerie i soccorsi, o vagato per vie buie alla ricerca di qualche familiare tra urla e lamenti. Non conosciamo l’odore che lascia un terremoto. Non eravamo neppure a patire il freddo, sotto la neve, chiamata dalla stessa natura quasi a voler coprire quel disastro troppo grave per essere sopportata persino da chi l’aveva provocato.
Oggi, come ogni anno, ognuno di noi, sa che il pensiero non andrà da nessuna altra parte, se non a quei novanta secondi. Si dice che quello dell’Irpinia fu uno dei terremoti più forti. Chi abita qui sa che forse è stato il più forte, perché, come detto, ancora oggi se ne pagano gli effetti: e allora non solo ogni mese 300 persone abbandonano questa terra, ma se c’è una giornata di sole, in inverno, non te la riesci a godere. Perché quel giorno faceva stranamente caldo, e qui non siamo più in grado di sopportare il sole d’inverno.
Di vittime, alla fine, ce ne furono 2914, come i caratteri di questo testo, ognuno a ricordare ogni viso, ogni nome strappato da questa terra in un attimo.
Oggi è il giorno in cui tutti ci stringiamo intorno al ricordo, a chi lo porta dentro, a chi lo tramanda, sperando che quello che fu non ricapiti mai più.
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