In un precedente articolo su Irpinia World abbiamo avuto il piacere di parlarvi della Mefite di Rocca San Felice, lago sulfureo dalle incredibili caratteristiche naturali, che da sempre ha suscitato la meraviglia e l’attenzione dei suoi visitatori.
Oggi, nell’età contemporanea, abbiamo modo di guardare alla Mefite con un occhio prettamente scientifico, apprezzandone le peculiarità naturalistiche che la rendono uno dei luoghi più affascinanti d’Italia e accogliendo con favore gli studi che, nel loro progressivo susseguirsi, gettano nuova luce sul luogo.
Ma non è stato sempre così. C’è stato un tempo in cui la Mefite non era semplicemente un fenomeno naturalistico. Era qualcosa di meno rassicurante, un luogo oscuro e misterioso che angosciava l’immaginario collettivo della popolazione che risiedeva nelle sue vicinanze.
Non c’è bisogno di andare troppo indietro nel tempo per trovare conferma di ciò. Fino alla metà del secolo scorso il mondo rurale di Rocca San Felice attribuiva alla Mefite una qualità soprannaturale, una forza extrastorica di connotazione esclusivamente negativa.
Nell’immaginario popolare la Mefite era la sorgente del diavolo, il luogo dove forze diaboliche si concentravano in un vortice maligno, che infestava le campagne e turbava il sonno dei poveri contadini.
Si dirà che in fondo non è una novità: fin dall’epoca romana, e forse ancor prima, il lago mefitico rappresentava la porta di ingresso dell’Ade, la via d’accesso al mondo degli Inferi, così come recita Virgilio nell’Eneide. E allora che cosa rende così particolare il rapporto tra il mondo contadino e la Mefite di Rocca San Felice?
Nel 1998 è stata pubblicata una raccolta di racconti intitolata Il patto con il diavolo, il cui autore è Edmondo Lisena, dove vengono riportati in forma narrativa gli aneddoti e le leggende sorte intorno al lago mefitico nel contesto contadino.
Le storie popolari contenute nel libro erano note a molte persone di Rocca San Felice e spesso venivano raccontate dagli anziani durante le soste dal lavoro e nelle serate d’inverno trascorse intorno al fuoco.
Nei racconti ricorre un unico canovaccio narrativo che assume forme diverse a seconda delle singole storie: dalla Mefite prendono vita presenze malefiche che ingannano i contadini con la promessa di tesori inesistenti, o si manifestano fenomeni diabolici che perseguitano gli abitanti della zona con scherzi sadici, animali indemoniati e condotte malvagie che portano persino alla morte.
Ad una lettura superficiale potrebbe sembrar chiaro che è la diabolica Mefite ad occupare un ruolo centrale nei racconti popolari rocchesi scritti da Edmondo Lisena. Ma leggendo attentamente il libro balza agli occhi che l’autentico protagonista delle storie è il mondo contadino, nella sua semplicità e nella sua frustrazione.
L’autore mette in scena la lotta del popolo rurale e indigente contro sé stesso. L’apparizione del diavolo è soltanto il pretesto narrativo che porta i poveri protagonisti (o meglio, i protagonisti poveri) a riflettere sulla loro condizione socio-economica.
A Titta, personaggio del primo racconto intitolato La sorgente del diavolo, si presenta un’alternativa tremenda: diventare ricco a costo della vita, o rimanere in vita restando povero. Egli divine consapevole lucidamente della sconfitta del mondo contadino, che appare senza redenzione, senza possibilità di riscatto.
Alla fine della sua vicenda, Titta rifiuta la mortale ricchezza e riscopre il valore della sua vita, che fino a quel momento aveva profondamente disprezzato a causa della povertà. L’esperienza diabolica vissuta nella Mefite lo porta a riconoscere che la sua esistenza è stata un errore e non perché ha vissuto nella povertà, ma perché l’ha sempre disprezzata, bramando la ricchezza.
Ricchezza che nei successivi racconti i diavoli mefitici offrono ai contadini, ma che, per una ragione o per l’altra, rimane a loro sempre inaccessibile.
Difatti, in ogni storia c’è sempre un impedimento che nega ai protagonisti di impossessarsi del tesoro, quasi a ricordare loro che chi vive una vita di stenti è condannato inesorabilmente al suo destino.
Al punto tale che Angelo Di Gianni, in Un tesoro non conquistato per colpa di un serpente, dice amaramente: “Se Dio ricco me oleva, povero non me faceva!”. Sembra quasi che il mondo contadino, vittima delle disavventure diaboliche, voglia autocompatirsi e, allo stesso tempo, consolarsi in una morale di rassegnazione: non esiste ricchezza senza lavoro.
Emblematico a questo proposito il dialogo tra un rocchese e uno straniero in I tesori del diavolo si guardano ma non si toccano, che vale la pena leggere integralmente:
-Per vivere qua, in questa creta, bisogna lavorare dalla mattina alla sera e se occorre, come in questo periodo [mietitura], anche di notte. I tesori…si dice…se n’è sempre parlato, ma conosci tu, che sei forestiero, conosci tu qualcuno che si sia arricchito!?-
– Io no. Non sono del posto –
– Beh, neanche noi che siamo del luogo e neanche i nostri padri che erano del luogo. La caccia al tesoro è un chiodo fisso di chi non ha voglia di lavorare e spera di compensarla cercando la ricchezza che nessuno ha perso, non avendola mai posseduta. L’idea di un facile arricchimento è molto più leggera di una zappa, meno faticosa di una giornata di mietitura, ma con probabilità tante quante ne ha un gallo di fare un uovo –
Il patto con il diavolo di Edmondo Lisena non soltanto è parte del ricco mosaico di conoscenze intorno alla Mefite, che consente di cogliere il valore antropologico e sociologico del sito rocchese, ma, al contempo, rappresenta l’occasione per riflettere sulle dinamiche che regolano il nostro rapporto con i luoghi e sui paradigmi storici dell’immaginario collettivo.
Se oggi diamo alla Mefite un significato prettamente scientifico-naturalistico, probabilmente lo dobbiamo allo stato di benessere diffuso che ha fatto della vita di stenti delle generazioni passate un lontano ricordo.
Nel corso del tempo il connubio tra progresso scientifico e benessere economico ha indubbiamente mutato l’immaginario collettivo intorno alla Mefite. Ma se fossimo vissuti in condizioni di povertà, in un’epoca di scarsa informazione e divulgazione scientifica, di analfabetismo diffuso, di frustrazione ed emarginazione sociale, cosa sarebbe stata per noi la Mefite?
È questa la domanda che aleggia nei racconti di Edmondo Lisena, dai quali possiamo indubbiamente trarre una conclusione valida in modo trasversale per ogni epoca storica: un luogo non è semplicemente uno spazio fisico da occupare, ma è il riflesso di noi stessi, l’estensione del nostro io collettivo.
La Pro Loco Ansanto nasce nel 2018 con lo scopo di tutelare e valorizzare il patrimonio naturalistico, artistico e culturale di Rocca San Felice.
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