Poesie del dolore e della bellezza – Conza alle pendici del Parnaso
Le atmosfere di Conza nuova e la storia dignitosa e tormentata della Conza vecchia, che pure è tenace nel ricordo tra le macerie, la morte e la sofferenza, risultano ispiratici potenti per l’Ars poetica e non solo.
Conza vecchia (l’antica Compsa) ha la sua anima ed è un’anima parlante, che palpita di vite. Vite che Armando Saveriano, poeta e critico letterario, ha còlto e raccolto, sintetizzandole in versi che si spiegano e si giustificano da sé, dove spettri e fantasmatizzazioni risaltano in uno specchio che riflette visioni e tormenti ossimorici, giacché la disperazione include promessa e rinascita, orgoglio e rigenerazione delle piaghe.
Aleggia ovunque un naturale senso del sacro e un sacro rispetto dell’inatteso, anche quando l’enigma del “quid” insondabile porta lacrime e procura brutali distacchi che sembrano e sono crudeli. Ma proprio i tragici smottamenti tellurici hanno consentito l’ascesa, la levitazione a sfere alte, che sublimano ogni effrazione passata della pace, della Vita.
Poesia
Non vuole dimenticanza
Conza com’era
Torna negli occhi della mente
e regge gerle di storia
Ognuno la sognerà
sotto una coltre serena
prima del ruggito della terra
prima della morsa del gigante infuriato
Ma chi oggi la pena ascolta
dei suoi fantasmi
chi raccoglie le anime in un mazzo
e le disseta nel palmo della carità
Eppure è là
alla fine e al principio del mondo
pietra sulla pietra nella pietra
spettro che alza il boccale
dell’eternità e fruscia
nel post scriptum
dell’inarrendevole pensiero
di chi ne amò assolazione
e frescura
chiacchiere al bar
ciarle nei vicoli
corse di bambini scapricciati
dolori di vecchi sulle sedie impagliati
giovani donne vestite di bianco
innamorati con belle cose
tra le dita
e un masticare di vento
che oggi dopo d’allora
chiede una serratura a
doppia mandata
sulla sofferenza
*
Se Conza fosse Itaca
conteremmo le pietre
in una raggelata
sospensione di coscienza
e il cuore non sarà in ritardo
sulla scacchiera
di portentoso dolore
e riconoscimento
delle mosse cieche e crudeli
dell’evento
Se Conza fosse Itaca
avrebbe Odisseo
nella sua legione di risorti
sotto un lunare presentimento
di sangue riscattato
sotto un mercuriale trasalimento
di lacrime raccolte in una ciotola
Molte voci si levano
né saranno smentite
dall’amore non evanescente
di chi resta altrove
e la ospita nei sogni
Un lembo di tempo
ancora le storie ne conserva
un mormorio di chiesa
un caro volto
uno zoccolo uno scialle
il fragore di un lamento sorpreso
e dopo l’avanzata della polvere
il tenebrore della morte
ad uncino
Su quei corrosi lividi
sarà vero un sopore
e il travaglio
della sopravvivenza che
non placa colpa
Ogni scampato
ne porta il terriccio
nelle tasche
*
Che mi vedano pure qui
sulla vecchia scala di pietra
io vengo ad ascoltare
Chi prima chi dopo
tutti hanno lasciato questo posto
e lungo ogni gradino
si trova a cercarlo bene
un groviglio di immagini
che non ne vogliono sapere
di scolorire
Non per me
Qui ho vissuto
più che in ogni altro luogo
Qui dalla cima
consolavo la terra amareggiata
e un’ora valeva una vita velenosa
altrove
Conservo le cicatrici sopra le ginocchia
perché planavo come gli aeroplani
il vento nei capelli
e nessuno mi strappava di mano
il timone del mio acerbo corso
Chi coglierà per me
le preghiere opache
che ancora esitano sulla punta dell’erba
chiamando ottobre e l’amore votivo
sotto un sole acido di nubi
inquinate dal fumo dei comignoli
La morte un tempo era venerata
le andavano incontro coloro
che sortiti dal frumento
ruminavano l’eternità dell’asfodelo
la luce di un fuoco immite
negli occhi
ed erano tanti nella stessa fede
Le mie grandi mani rosse
hanno uno scatto di collera
la scala conta mille antiche cicatrici
e neanche uno dei piccoli invasori
che molestavano fiori modesti
e creature morbide o metalliche
a tremare nelle crepe
La pietra s’è incrudelita
e mostra le ossa
tenta di scrollarsi il muschio che pur le piace
che di notte si fa coltre
ornante per i cenci dei ricordi
Ho visto una foglia bianchissima
il viso di una bambina
che teneva nel pugno una catenella d’oro
Caterina
la cercava sua madre
Caterina è ora di messa
e farà pioggia
prendi lo scialle
Già allora l’amore brucava
portando dietro di sé il freddo
e dentro sabbia calda fine e perlata
Già allora ci si incontrava
affianco a quello stesso cippo
già allora
E si salutavano i mietitori
seduti sul far della sera
a masticare la zuppa del lavoro
Erano oneste ore quelle
sorelle di luce calante
e senza il serpente sfrigolante
delle ombre che appaurano oggi
Decisi che non avrei errato
altro che nei libri che leggevo
fino a consumarmi gli occhi
Avrei fatto riparare le suole
e morso il pane fermo della resistenza
Il futuro non è stato per me un mare ghiacciato
e se nella calca sono stato confuso
abbandonato
ho conservato l’arma e sfidato
la torre alta
il lago dal sussurro di raso
e di vedetta azzuffato
con il cielo
quando batteva sulla roccia
i suoi anelli dentro cui passavano le lune
rotonde
Ancora mi taglio
mi trafiggono gli spini
mi sorprende una lucertola
a cui spezzavo sempre le code
e dalla nebbia grigia che affioca
s’eleva un grido di ragazzo
col suo fulgore invidiabile e sgualcito
il vento nei capelli
planando come un aeroplano
*
Aiutatemi a trovare
la bambina che qui sono stata
la giovane che cuciva nelle sere estive
la donna che non sarei diventata
Una volta ho inventato un papavero
l’ho appuntato sul mio sangue
Raccattate vi prego i frammenti di me
Raccoglieteli
Metteteli insieme in questa ciotola sbeccata
affinché l’anima mia li beva
questi brandelli
e vòliti più sicura
nell’angolo di mare celeste
che senza più verbo guarda Conza
Omero ne avrebbe dolentemente
cantato la distruzione accanto alla gemella Ilio
e Curzio Malaparte avrebbe cucito pelle di pietà
sull’antica incolpevole città
che in un lampo appreso avrebbe
d’immane miscela la formula
del distacco delle stelle
ritirate al di là dell’universo
mentre Dio per inconcepibile volontà
radeva al suolo con brontolio sordo e incavato
le opere e gli uomini e scriveva
un inaccettabile forse domani
Avevo un piccolo cane a cui dormivo stretta
fui ribattezzata nella morte
mentre latravano inascoltati
gli allarmi profetici delle bestie agitate
e pulsavano rosse le vene della luna bassa
Non ho mani non ho piedi non ho occhi
né ali Scorro in lacrime lunghe
che disinfettano la desolazione all’intorno
Rattoppatemi
Sono una bambola scucita con spilli
e vetri sulla lingua
figlia dello spettro di una città
che nemmeno rantola più
nello stordimento del silenzio
Io non trovo la bambina che son stata
la giovane donna punta dall’ago
la moglie e la madre e la nonna
a cui è stato cassato il colore degli occhi
e interrotta la dolcezza pigra
di ogni illusione
ARMANDO SAVERIANO
Ti è piaciuto? Condividilo con i tuoi amici!
Resta aggiornato sulle nostre novità!
Iscriviti gratuitamente alla nostra newsletter e riceverai una mail con gli articoli che più ti interessano!
Visita la nostra sezione eventi!
Scopri gli eventi che si terranno in Irpinia e decidi a quale partecipare!