Una leggenda può provenire da epoche remote e prendere spunto da racconti che si tramandano oralmente da secoli. Oppure può nascere durante una serata autunnale, nella quale il soffio del vento stuzzica a tal punto l’immaginazione che ogni parola sembra dettata dal fruscio delle foglie. Questo racconto a quale categoria appartiene? Ad entrambe, o forse a nessuna. Sta a voi deciderlo.
Il racconto della cupa
Si narra che un contadino, di nome Antonio, di ritorno da una giornata di lavoro, fosse talmente stanco che si appoggiò ad un albero e lì si addormentò. All’improvviso, mentre dormiva profondamente, fu preso da una strana sensazione: qualcosa gli impediva di muoversi e di svegliarsi, come nei peggiori incubi, ed una voce stridula gli sussurrava all’orecchio: “T’è misso n’goppa casa e iu te levo la jata”. La sensazione di soffocare si fece sempre più forte ma, ad un tratto, il robusto contadino riuscì ad aprire gli occhi, con stupore si accorse, però, che, intorno a lui, oltre ad un buio pesto non c’era nulla.
Tornò a casa molto turbato, ma attribuì il tutto ad un brutto sogno e lasciò che l’accaduto cadesse nel dimenticatoio. L’indomani, giorno di festa, decise di farsi una bella lavata, così da poter indossare l’abito buono della domenica ma, una volta svestito, un urlo di terrore squarcio la quiete della campagna: dei tremendi lividi erano comparsi sulle sue braccia e sul torace, ferite simili ad ustioni che non lasciavano spazio a nessun tipo di dubbio: qualcuno, o qualcosa, la sera prima lo aveva quasi ammazzato.
Preso dallo spavento, si recò in paese dal dottore per farsi controllare. Il medico accettò di visitarlo, ma alla vista delle ferite rimase alquanto interdetto.
Gli disse con un tono serio: “Antò, ma addu te si cuotto?” e il contadino rispose: “Da nisciuna parte dottò. Coccossa m’ha angappato dind’a lu suonno”.
Il medico continuò ad ispezionare il corpo con scrupolo ma poi aggiunse con tono infastidito: “Tu oj me vuò fa perde tiempo, te dico ju che è succiesso: tu te si addurmutu vicino a lu fuoco tuttu ‘mbriaco e si cadutu cu le vrazza dindo.”
“Noni dottò – disse implorante Antonio – nun so caduto dindo a la vraja, coccossa m’ha anggappato mentre durmìa”. “Siendi Antò – disse con voce imperiosa il dottore – mo me n’aggia j cà tengo che fa. Le ferite so già chiuse, nun ngi so vessiche. Nun saccio cu che t’è appicciato, ma statti chiù accorta e fa sta lu vino dindo a lu tino la prossima vota.”
Sconsolato per non essere stato preso troppo sul serio, il povero Antonio si incamminò verso casa. Per la strada incontrò un’anziana signora, amica di famiglia, la quale lo vide turbato e gli disse: “Nè Antò, che è cà stai accussì muscio?” ed Antonio rispose: “Eh cumma Tresì, stanotte aggio quasi muorto, ma lu duttore nun m’è vulutu crère…”
“O pe la miseria – rispose la vecchietta – cumm’è succiesso?”
“Coccosa m’ha anggappato mentre durmia sott’an’albero e m’ha luvato lu jato. Io me pensava cà era stato nu bruttu suonno, ma pò mumani m’aggiu truvatu ‘ste ferite n’goppa a le vrazza.”
Nel dire ciò le mostrò i segni lasciati dalla brutta avventura, al che la donna impallidì e si fece tre volte il segno della croce.
“Quisti so l’artigli de lu demonio – disse sottovoce l’anziana quasi impaurita di poter essere sentita da qualcuno – vàtte a fa benedì da lu preuto e nun ngi turnà dà: tu t’è addurmutu ngoppa a lu purtusu ca lu demoniu usa pe assì e venì a fa danni la notta pe dind’a le campagne. Quiddo è disgraziato, e si nun fai attiempo a scitarte, t’accide dindo a lu suonno comme faci cu le crjature.”
Detto questo l’anziana scappò via, impugnando tra le mani un rosario che aveva in tasca e recitando alcune litanie in latino.
Ancora più sconsolato, si avviò nella strada che da Dietro Corte collegava il paese alla campagna dove abitava. Arrivato nella sua piccola abitazione, non mangiò e non uscì fino al giorno dopo. Poco prima dell’alba, senza aver praticamente dormito, dovette incamminarsi per andare a lavoro. Decise, però, di fare una prova. Fu così che, dopo la giornata passata a zappare la terra, non fece ritorno a casa ma andò nel luogo dove era successo il fattaccio. Aveva portato con se un grosso coltello, un sacco e una grande corda.
Passarono delle ore e, arrivato oramai a notte fonda, quasi gli occhi gli cedevano al sonno. Fu proprio in quel momento, quando il suo vecchio orologio a cipolla segnava le tre e mezza, che si levò un grosso vento. Un turbinio di foglie e rami si levò e si creò un gran trambusto. Intenzionato ad arrivare fino in fondo, Antonio prese il sacco, si tuffò in mezzo a questo vortice, e cercò di fermare quello che sembrava una strana figura che nell’oscurità aveva notato. Fu tanto lo stupore quando, dal sacco, iniziò a dimenarsi un qualcosa di solido ma ancor di più fu lo spavento quando costui parlò e la voce non lasciò dubbi: era quella che la notte prima aveva quasi ucciso il povero contadino.
“Dimme chi si!” urlò Antonio
“So scazzecamaurieddru, e tu m’è pigliatu” Rispose una strana voce dall’interno del sacco.
“L’ata sera me quasi acciso, pecché?”
“Tu te si addurmutu n’goppa a la porta pe assì e trasì, accussì io nun riuscia chiù a trase pè turnà a la casa mia, dindo a la terra”
“E mo che bulimmo fa visto ca t’aggiu n’trappolato”
“Tu è catturato a Scazzecamaurieddru, e io mo, pè me fa liberà, te sfonno sta sacchetta de monete d’oro, ma tu m’è aprì prima.”
“Io lo fazzo, ma li patti so patti: io te libero, ma tu me igni la sacchetta de soldi” disse con tono titubante il giovane contadino.
Detto questo, l’ormai spaventatissimo Antonio, con in mano il coltello, aprì il sacco: un piccolo vortice di vento ne uscì e continuò il suo tragitto, sollevando foglie e rami.
Quasi certo di essere stato imbrogliato, Antonio mise una mano dentro al sacco e, con immensa gioia, ne cacciò un pugno pieno di monete d’oro che luccicavano sotto la luna.
Da quel giorno cambiò la sua vita, riuscendo a comprarsi una grande casa e diventando proprietario di tanti terreni. Nessuno seppe mai come avesse avuto quella piccola fortuna, fin quando, in punto di morte, rivelò ad un amico una traccia:
“Ju so criscjuto povero e sulu. Na sera riuscietti a ‘ngappà lu Scazzecamaurieddru e quiddru, pe se fa liberà, m’è into na sacchetta de monete d’oro. Tantu ca pesava ca nun me la so pututa purtà appriesso. Allora la lassaj dà, addo sulu ju sapja, e quannu me servja, me jà a piglia nu pocu de sordi. Mo cà moro, senza figli, lasso queddra sacchetta dà sepolta, e fortuna n’adda tenè chi la trova sotta la freccia de santaloja.”
Queste furono le ultime parole dell’anziano contadino. Nessuno seppe mai con certezza dove fosse il tesoro ma da quel momento il tesoro di Antonio è ancora sepolto nelle campagne di Morra e qualcuno crede sia possibile trovarlo seguendo una grande freccia disegnata da un grande bosco semi-nascosto.
Ti è piaciuto? Condividilo con i tuoi amici!
Resta aggiornato sulle nostre novità!
Iscriviti gratuitamente alla nostra newsletter e riceverai una mail con gli articoli che più ti interessano!
Visita la nostra sezione eventi!
Scopri gli eventi che si terranno in Irpinia e decidi a quale partecipare!